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Prima del fornello. La fabbrica del cibo e la sua immagine

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Come se il cibo nascesse sul fornello. In questo caso sì, diventa una festa della visione: possiamo dire ti mangio con gli occhi.

HENK WILDSCHUT 05 SWINE INNOVATION CENTRE (VIC), STERKSEL, AUGUST 2012

HENK WILDSCHUT: Swine Innovation Centre (VIC), Sterksel, August 2012. © Henk Wildschut

Sul fornello il cibo è sempre e solo succulento, desiderabile, esibizionista: è diventato cibo televisivo, infatti, un eroe da talent show: lo chiamiamo in inglese, come le star: food.

Ma prima? Vagamente, ci sembra che ci sia il supermercato: ma già lì il cibo è nascosto nel suo involucro. Comunque, più indietro non andiamo. Non ci piace andare. Ora invece ci andremo: a Bologna, la Biennale Foto/Industria ha scelto di sollevare il velo sui nutrimenti terrestri e di mostrarcene l’immagine non più come promessa di un godimento, ma come esposizione di un problema.

“La leggerezza con cui il cibo ci viene mostrato dalla società dello spettacolo nasconde un groviglio di problemi complessi che non hanno soluzioni semplici”: ecco secondo il curatore Francesco Zanot l’idea di partenza di questa quinta edizione della Biennale, che ancora una volta invade la città con undici mostre diffuse tra il Mast, il centro di ricerca sulla fotografia industriale, unico al mondo, che da un decennio ormai è il motore di tutto, e i palazzi nobili del centro storico.

Una biennale diffusa, come un pranzo in undici portate, dall'antipasto di arancia al peperoncino al dessert di pera al tatin. La quinta biennale Foto/Industria la possiamo anche consumare così, come un menù completo, e gustarcela a casa, grazie a quel suo catalogo originale che è anche un libro di ricette (a cura dello chef Tommaso Melilli). Ma: "Questa non è una biennale sulla cucina e neppure sulla fotografia di food", insiste ancora Zanot.

JAN GROOVER 05 Untitled

JAN GROOVER: Senza titolo / Untitled, circa 1978. © Musée de l'Elysée, Lausanne – Jan Groover Archives

Considerare il cibo sotto la specie dell’industria significa aggirare lo schermo seduttore del gusto e andare dritti al cuore del problema, che è questo: in una società complessa, nel rapporto fra due polarità primigenie della nostra condizione biologica, il nutrimento e il corpo, si intromette la presenza artificiale della macchina.

Quella mediazione ormai necessaria è anche il suo punto di rischio: di indigestione tecnologica morirà il pianeta, se non stiamo attenti. E il titolo della Biennale, Food, è forse una provocazione.

Non ci sono vere foto food, nelle mostre. Intendo quelle foto quasi pornografiche, seducenti, allettanti, acquolinose, che l’arte dei fotografi ormai sa produrre in modo paradossale dal loro contrario (quasi nulla, del cibo fotografato per la pubblicità, è commestibile: i colori ravvivati da lacca per capelli, i minestroni crudi e freddi che emanano non vapori odorosi ma fumi di sigaretta…).

Il cibo fotografato “dopo il fornello” ormai non è più cibo, è la sua indigesta controfigura, è la sua immagine elusiva, è desiderio senza godimento. Fotografare il cibo, e ancor più guardare fotografie di cibo, è un’esperienza tantalica per necessità. Guardare ma non gustare. Mica si mangiano, le fotografie.

ANDO GILARDI 01 Giovani donne portano zucche sulla testa

ANDO GILARDI: Giovani donne portano zucche sulla testa. “Le zucche, d’estate sono mangime, d’inverno cibo”. Quando il gallo canta a Qualiano, ampia fotoinchiesta di Gilardi sulla sindacalizzazione dei braccianti agricoli, in questo paese particolarmente sentita. Qualiano (Napoli), ottobre 1954. © Fototeca Gilardi

Beati i tempi dell’Artusi, quando un libro di ricette non era obbligato ad avere illustrazioni, se non quelle tecniche (il diametro di un tortellino). Sfogliare un manuale di cucina oggi invece è un’esperienza paradossale. Sono cataloghi illustrati.

Ma più che indicazioni pratiche sull’aspetto che dovrebbe assumere il cibo nel piatto, sono promesse mitiche di gusto, frustrate però da quei colori sempre chiassosi, da quelle composizioni troppo artefatte. Alla fine, le fotografie sopra i banconi dei fast-food hanno finito per disgustarci.

Ma poi, quando dal cotto risaliamo al crudo, dal prodotto alla produzione, le cose cambiano assai. Quello che ha fatto la Biennale è semplice: è andata a cercare nel lavoro di grandi fotografi, da un secolo a questa parte, una visione del cibo al di là del principio del piacere.

Dentro questo immaginario nascosto del cibo-prima-che-diventi-cibo si inoltra il percorso delle mostre.

BERNARD PLOSSU 01 Chez Troisgros, Roanne

BERNARD PLOSSU: Chez Troisgros, Roanne, 2000. © Bernard Plossu

Ognuna delle quali (mettete pure in conto una giornata) è un caso di studio. Concettualmente, si potrebbe iniziare dal MaMBo, il museo d’arte moderna, che un tempo fu appunto fabbrica di cibo (il forno per i poveri della città), dove troviamo trent’anni di nature morte di Jan Groover (è la prima retrospettiva in Italia dell’artista americana), che che restituisce al cibo e ai suoi attrezzi l'aura magica dei dipinti di Giorgio Morandi, o la potenza simbolica dei memento mori barocchi: ovvero, il cibo trasceso in pura visione, metaforizzato fin dal Rinascimento come simbolo di vita e di morte.

Oppure proprio dal Mast, che rende omaggio a uno dei più grandi e originali studiosi delle icone meccaniche: Ando Gilardi, che fu “fotografo scalzo” quando di cibo ce n’era poco per gli operai e i contadini di un’Italia preindustriale, di un'Italia proletaria dove la fame non era ancora un piacevole languorino ma una minaccia alla sopravvivenza, che lui andava a fotografare per i giornali della Cgil.

Quella fame fu saziata dal benessere, dal boom economico, di cui le immagini "povere" collezionate da Gilardi (pubblicità, figurine, scatole, poster e magari anche le cartine delle arance) sono la traccia iconica. Lasciata la fotocamera, infatti, Gilardi divenne l'archivista ingordo dell’immaginario di un secolo intero: Zanot ha interrogato la sua gigantesca Fototeca Nazionale come si farebbe con un motore di ricerca, inserendo parole-chiave relative al cibo e mostrando quel che ne usciva: pubblicità, incarti di arance, figurine, cartoline, insomma il cibo precocemente iconizzato e mediatizzato dalla società dell’immagine, che un video cornucopia ci rovescia addosso.

C’è ancora spazio per una poesia del cibo nell’era della sua riproducibilità tecnica? Viene da chiedersi se il nutrimento terrestre,  possa essere ancora amichevole e domestico come lo vediamo nelle fotografie poetiche di un viaggiatore incantato, Bernard Plossu, il cui immaginario in bianco e nero è abitato da cuochi col cappello a sbuffo e verdurai col carretto, ma ha per noi oggi qwuasi il sapore di una favola.

LORENZO VITTURI 01 2nd Floor Aerial View

LORENZO VITTURI: 2nd Floor Aerial View, 2017. © Lorenzo Vitturi

E ci sarà un motivo se un fotografo raffinatissimo, elegantissimo, un esteta del bianco e nero classico e quasi apollineo come Herbert List, trovandosi nel 1951 in mezzo al caos e al sangue di una tonnara a Favignana, ne ha ricavato il reportage antropologico senza pudori di un evento solennemente sanguinoso, di impressionante epica crudeltà; esposto non a caso sotto gli affreschi dei Carracci, dove la violenza è trascesa in mitologia.

Finiva già allora in scatola, quel tonno, ma alla fine di una specie di cammino rituale che coinvolgeva una comunità. Sì, c'è stato un tempo in cui il cibo era materia caotica e vivente del mondo, vita da trasformare in altra vita; ma ora questa condizione originaria ci viene nascosta, perché non ci spaventi la sua dimensione innaturale, come ci appare nei reportage di Henk Wildschut fra le produzioni di carne o di verdura che ben poco ormai hanno di naturale.

Passando attraverso la metamorfosi industriale, del resto, il cibo nasconde la sua natura. Cosa vediamo davvero dei cioccolantini Most, la fabbrica tedesca per cui Hans Finsler produsse negli anni Venti una serie di elegantissime immagini? Finzioni: cioccolata colata in forma di animali, o di oggetti, cibo che si camuffa da altro, che nega la propria genesi di prodotto.

MISHKA HENNER 01 Feedlots, Coronado Feeders, Dalhart, Texas

MISHKA HENNER: Feedlots, Coronado Feeders, Dalhart, Texas
2012. © Mishka Henner. Courtesy of the artist and Galleria Bianconi, Milano

Ora questo accade in forma ipertrofica. Riprese dal satellite, le mucche destinate ai nostri hamburger sono puntini neri, grafie su un supoorto geometrico, segni apparentemente astratti di quel processo devastante per le risorse del pianeta che è il colossale allevamento intensivo: le fotografie che Mishka Henner ha carpito dal Web e ha ricomposto in paesaggi zenitali di dimensioni altrimenti impossibili da cogliere ci mostrano allevamenti sono grandi come città, ma disegnati sulla croista terrestre come incubi di celle chiuse accanto a immonde voragini color sangue.

Ed ecco, come va a finire la catena produttiva: quella carne diventare strumento di un singolare colonialismo della tavola: Takashi Homma registra con amarezza il colonialismo McDonald’s che fagocita la cultura alimentare del suo Giappone. (La scelta di esporre le sue immagini nella palazzina Esprit Nouveau di Le Corbusier, alla Fiera, sembra essere un esplicito sarcasmo sulla sorte dell'utopia razionalista: di finire in un fast-food planetario).

Ma senza industria del cibo, chi darà da mangiare a otto miliardi di esseri umani? C’è una alternativa a Big Food? Anche dietro la pesca nel ruscello di montagna, più sport che alimentazione, Maurizio Montagna vede l’ombra dell’artificioso, nelle esche di plastica o nelle costruzioni che modificano il paesaggio fluviale.

Mentre nel caotico, ipertrofico mercato alimentare di Lagos, in Nigeria, tra i più grandi del mondo, Lorenzo Vitturi scopre una specie di apocalissi dell’eccesso, scopre la dimensione ipertrofica della cornucopia alimentare e la affronta intervenendo con le armi dell'artista, ricomponendolo in collage e sculture.

HERBERT LIST 04 The big head of the tuna is being cut off

HERBERT LIST: Si taglia la grande testa del tonno, Favignana, Italia / The big head of the tuna is being cut off, Favignana, Italy 1951. Collezione MAST. Courtesy of The Herbert List Estate / Magnum Photos

Il cibo, dunque, cambia il mondo. Può addirittura distruggerlo. Può salvarlo invece? C’è posto forse solo per qualche utopia, coraggiosa e isolata. Un soffio di speranza sembra spirare nei laboratori palestinesi dove Vivien Sansour cura e fotografa antiche varietà di semi per salvarle dall’estinzione, ma anche per cercare di restituire al cibo il posto che ha perduto, di narrazione costantemente rinnovata della presenza umana nella storia naturale della Terra.

Una raccomandazione: questo viaggio a tappe non nutrirà il vostro corpo. Sono solo immagini. Tuttavia, ci convincono che non esiste cibo cieco.

Quel che entra per la bocca, finisce nello stomaco. Ma quel che entra per gli occhi, finisce solo nella mente.

In fotografia, il cibo è cibo per l’anima. Soul food to go, cantavano i Manhattan Transfer: cibo per l’anima, da asporto.

[Versioni di questo articolo sono apparse su La Repubblica, La Repubblica Bologna e Il Venerdì di Repubblica il 14 e 15 ottobre 2021]


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